9.27.2013

Kings Of Leon - Mechanical bull (2013, Rca / Sony)

Dieci anni fa la famiglia Followill debuttava con un disco crudo e dall’anima quasi punk, basato principalmente su ritmi sostenuti e sfuriate convinte. In Inghilterra – dove si sa che sono sempre più avanti – molti si erano già accorti di loro, ma la consacrazione definitiva a livello mondiale arriva solo con "Only by the night", che – "Sex on fire" a parte – puntava tutto su mezzi tempi intrisi di un certo romanticismo. Il successivo "Come around sundown" confermava la tendenza più “matura” della band, ricalcando le intenzioni del predecessore senza sconvolgere più di tanto critica e pubblico. Un mini-hiatus fa da preambolo al sesto lavoro in studio dei Kings Of Leon, che rimescola le carte fin dai primi singoli estratti: "Supersoaker" pesta senza rimorsi – ma anche senza arrivare ai picchi di rumore raggiunti in gioventù – mentre "Wait for me" si assesta su un ritmo decisamente più calmo e puntella la dolcezza della melodia con arpeggi sognanti. Questo alternarsi è una costante dell’album: da una parte "Don’t matter" gioca con un riff praticamente Sex Pistols, dall’altra "Beautiful war" rallenta e ammorbidisce. "Coming back" viaggia dritta e spedita, "On the chin" dimezza il tempo e raddoppia la delicatezza. Gran parte di quello che resta è standard KOL, con pezzi ben suonati e interpretati ("Temple", "Comeback story", "Tonight") e un paio di brani che non lasciano grandi segni (le conclusive "Work on me" e "Last mile home"). Spicca – nel bene o nel male decidetelo voi – un episodio che si avventura in ambiti meno prevedibili: "Family tree" mischia una linea di basso funky con propositi blues e una piccola dose di gospel, assicurandosi il premio come oggetto meno identificabile del disco. Chi (come il sottoscritto) si è innamorato dei Kings grazie a "Only by the night" incontrerà delle difficoltà a digerire i brani più tirati, specialmente quando manca quasi del tutto la profondità (il già citato "Don’t matter"); ma tutto sommato "Mechanical bull" si rivela un ascolto scorrevole, vario e d’immediata fruizione.

7.5/10

Highlights: Supersoaker, Beautiful war, Temple, Wait for me, Comeback story, Tonight, On the chin.

9.22.2013

The Bloody Beetroots - Hide (2013, Ultra / Dim Mak Records)

Per attirare l’attenzione nell’immenso mondo dell’EDM (Electronic Dance Music) non basta una maschera; bisogna distinguersi (sfida piuttosto ardua considerando che il contesto appare come un mega-frullato di tutte la varie sotto-culture della dance degli ultimi 30 e passa anni) e guadagnare una certa credibilità – meglio se internazionale. Onore quindi a Bob Rifo, perché ammettiamolo: partire da Bassano Del Grappa e ritrovarsi un “feat. Paul McCartney” tra le tracce del proprio secondo disco non è roba da niente. The Bloody Beatles; chi se lo sarebbe mai immaginato? Una delle star più influenti della storia della musica che presta la sua voce a un indie-punk-raver mascherato italiano. Oltretutto l’amalgama funziona; viene fuori un ibrido tra classic-rock e dubstep che ha un suo perché. L’ospitata di Paul mette in ombra altri nomi illustri, come per esempio quello di Youth (il bassista dei Killing Joke), Tommy Lee (anche se la sua presenza non è una sorpresa, dato che aveva già duettato con Sir Bob in passato) e degli storici Peter Frampton e Perry Rimbaud - apocalittico nella densa "The furious". L’intervento del rapper statunitense Theophilus London dà vita al brano più pop e meno rumoroso dell’album ("The girls"); c’è invece un pizzico di soul in "Glow in the dark" (insieme a Sam Sparro), mentre "Please baby" spinge in direzione electro-funk grazie a P-Thugg dei Chromeo. In assenza di featuring i pezzi sembrano osare un po’ meno, ma nella loro linearità tirano giù i muri facendo leva su una produzione impeccabile; quando Bob è spalleggiato dal suo amico Gigi Barocco la potenza sonora diventa inaudita. "Hide" è un disco chiassoso (d’altronde come aspettarsi altro?), ma Bob Rifo dimostra che è possibile fare del sano bordello senza per questo rinunciare a melodia e cura del suono.

7/10

Highlights: Runaway, The furious, Out of sight, Albion, The source (chaos & confusion), Rocksteady.

9.14.2013

Mgmt - Mgmt (2013, Columbia / Sony)

Un album poteva essere un indizio, ma due (per giunta consecutivi) diventano una prova: gli Mgmt di "Oracular spectacular" (l’esordio del 2007) non esistono più. Si sono evoluti, e si sono lasciati alle spalle tutto ciò che ha a che fare con melodie che ti si conficcano senza pietà nel cervello (c’è chi ancora fischietta "Kids", una di quelle canzoni che non passano mai di moda). I Newyorkesi hanno deciso di starsene per i fatti loro su una felice isola colorata e piena di fiori, lontanissima dalle leggi del pop radiofonico. Peccato, dirà qualcuno; c’è sempre spazio per una "Electric feel" o una "Time to pretend" a spezzare le scontate scalette pop della radio. Bene così, diranno altri; se Andrew VanWyngarden e Ben Goldwasser hanno voglia di esprimere il loro lato meno catchy sono i benvenuti. D’altra parte hanno dimostrato di essere all’altezza della sfida con "Congratulations", un album in cui la parola 'singolo' vale come il due di picche a briscola bastoni. Quando quest’anno in occasione del Record Store Day hanno fatto uscire il 'singolo' "Alien days" in formato cassetta (!!!) abbiamo capito di esserceli giocati definitivamente. Non torneranno più indietro (dove per “indietro” si fa riferimento ai primi vagiti della band), ma continueranno a esplorare territori più oscuri e sperimentali. Ecco dunque che la cover di Introspection (brano inciso nell’anno di grazia 1968 dal misconosciuto Faine Jade) calza a pennello. La psichedelia è ovunque: nelle misteriose sospensioni di "I love you too, death" (una sorta di ninna nanna per adulti con un crescendo avvolgente), nell’insistenza della minacciosa "Your life is a lie", nelle terzine di "Plenty of girls in the sea" (praticamente i Beach Boys strafatti) e nella visionaria "An orphan of fortune". E alla fine il disco diventa una validissima alternativa all’acido lisergico.

7.5/10

Highlights: Alien days, Mystery disease, Introspection, I love you too death, Plenty of girls in the sea.

9.13.2013

Goldfrapp - Tales of us (2013, Mute)

La matematica e un certo senso dell’equilibrio impongono che il sesto disco dei Goldfrapp sia composto da pezzi lenti e rilassati. Laddove "Supernature", "Black cherry" e "Head first" avevano a che fare con flashback disco e synth-pop, "Seventh tree" e l’esordio "Felt mountain" erano roba da tramonti balearici; ecco quindi che Tales Of Us va a rinverdire lo spirito più soft del duo, e c’è da scommettere che i sostenitori del lato più pop dei Goldfrapp rimarranno molto delusi quando scopriranno che qui le tracce dedicate alla batteria sono state in pratica depennate dal mixer. Una ventina abbondante di minuti scorre soffice tra i sospiri di "Annabel" e il folk deviato di "Jo", la vena teatrale di "Drew" e gli archi in rilievo di "Ulla". Dopo "Alvar" (un delicato valzer al rallentatore scandito da colpi di piano e violoncello) arriva il brano che spezza l’incantesimo: "Thea" mette da parte la dimensione acustica e si tuffa in un’elettronica sporca e volutamente scura, mantenendo comunque un profilo raffinato, e di conseguenza il filo logico con il contesto del disco. Nelle quattro tracce rimanenti sono ancora chitarre, pianoforti e violini a farla da padrone, e in "Stranger" assistiamo addirittura al ritorno del fischiettio – quello che nel 2000 aprì le porte del successo al duo attraverso l’immortale "Lovely head". Ed è proprio qui che interviene la fatidica domanda, quella che ogni gruppo che ha partorito un capolavoro deve affrontare – specialmente se il suddetto capolavoro viene citato in maniera esplicita: le nuove canzoni sono all’altezza di quelle scritte in passato? Forse melodicamente no: certe soluzioni si riveleranno di facile previsione per l’ascoltatore scafato. Ma emotivamente parlando non si possono muovere grandi appunti: Will Gregory e Alison Goldfrapp appaiono molto più sinceri così rispetto a quando cazzeggiano spensierati con ritmi veloci e casse in quattro.

8/10

Highlights: Jo, Annabel, Drew, Alvar, Thea, Stranger.

9.12.2013

Emiliana Torrini - Tookah (2013, Rough Trade)

Il bello di Emiliana Torrini è che non sai mai cosa aspettarti. Va alla ribalta internazionale nel ’99 raccogliendo le ceneri del trip-hop come meglio non si potrebbe; scompare e torna 6 anni dopo con un album completamente acustico. Intanto presta la voce a Thievery Corporation, Paul Oakenfold e Gus Gus, e già che c’è scrive un paio di pezzi per Kylie Minogue; poi nel 2008, a pochi giorni dall’uscita del suo quinto lavoro in studio, dichiara candidamente che "Me and Armini" secondo lei è un disco di transizione – asserzione piuttosto fuori dal comune e solitamente controproducente per un artista che si appresta a lanciare un nuovo album (peraltro splendido). Ora sostiene che il suo sesto "Tookah" sia qualcosa di più elaborato, in contrasto con il divertimento fine a sé stesso di Armini. Tale tesi viene presto confermata dall’etereo synth-pop dell’elegante singolo "Speed of dark", che però potrebbe trarre in inganno: non aspettatevi un ritorno alle sonorità di "Love in the time of science", perché gli altri 8 brani inclusi in "Tookah" utilizzano l’elettronica in maniera molto più parsimoniosa, lasciando spazio alla chitarra acustica e all’incantevole voce della cantautrice italo-islandese. A differenza del folk crudo e intimista di "Fisherman’s woman", pezzi come "Elisabet" e "Caterpillar" mescolano songwriting d’altri tempi e riverberi avvolgenti, alla ricerca di un equilibrio ideale tra passato e presente; "Autumn sun" è invece l’episodio più minimalista dell’album, una toccante ninna nanna agrodolce. I ritmi dispari di "Home" alimentano la convinzione che tecnica e sentimento possano viaggiare fianco a fianco, "When fever breaks" si abbandona al fascino della sperimentazione, mentre i 5 minuti di "Blood red" suggellano lo straordinario talento interpretativo e compositivo di un’artista più unica che rara.

8/10

Highlights: Caterpillar, Autumn sun, Elisabet, Speed of dark, Blood red.

9.07.2013

Nine Inch Nails - Hesitation marks (2013, Polydor/Columbia)

Malgrado l’apprezzabile tentativo di organizzare le uscite con estrema cura – apponendo su ogni release la parola “Halo” seguita da un numero progressivo – tra dischi di remix, e.p. e versioni alternative capire a che album sia giunta la cospicua discografia dei Nine Inch Nails rimane una bella gatta da pelare. Diciamo solo che questo "Hesitation marks" è l’Halo numero 28, il primo a giungere dopo la pausa annunciata nel 2009. Nella formazione della band spicca il volto nuovo di Josh Eustis, per il resto la line-up dell’ultima fase è confermata; d’altra parte questa informazione è ridondante, visto che i NIN si possono da sempre riassumere nella figura di Trent Reznor. Un Reznor al quale non manca certo l’ispirazione; l’idea di confezionare un nuovo album è venuta registrando due tracce per un Greatest Hits, quando Trent si è accorto che aveva qualcosa in più da dire. Il disco ha una spiccata vena elettronica: in una buona percentuale di brani la chitarra svolge un ruolo marginale, e si distinguono suoni quasi Chemical Brothers (ascoltare gli arpeggi di synth di "Come back hunted" o "Copy of a" per credere). Non stupisce quindi che le maggiori illuminazioni siano arrivate tra le mura dell’ufficio di Trent, dove non c’erano strumenti al di fuori di una batteria elettronica; a suo parere quest’approccio ha fatto si che la sua musica godesse di un trattamento più minimale – anche se definire minimale un album dei NIN sembra un vero azzardo. Chi ha voglia di cercare un significato concettuale che lega i 14 brani troverà terreno fertile; dall’immenso "The downward spiral" (il maestoso concept del 1994) tutto è lecito e possibile. In tutta sincerità "Hesitation marks" non osa eccessivamente, stando alla larga da (probabilmente inutili) rivoluzioni; si limita a confermare il genio (e il mestiere) di Reznor. Il ritorno con stile è servito.

7.5/10

Highlights: Copy of a, Come back hunted, Find my way, Everything, Various methods of escape, I would for you.