7.31.2006

Muse - Black holes and revelations (2006, A&E)

Per accorgersi delle ambizioni universali dei Muse basta dare un'occhio ai titoli dei loro album (dal secondo in poi, per la precisione): "L'origine della simmetria" e "Assoluzione" ora si inchinano di fronte ad un'espressione ancora più forte come "Buchi neri e rivelazioni". La traccia che apre Black Holes And Revelations segue la tradizione epica di tutti i dischi precedenti, ma questa volta ci sono degli elementi tipici della musica elettronica che incuriosiscono e introducono l'ascoltatore all'album più bastardo della band; l'incrocio fra rock e dance è ben sintetizzato dal primo singolo Supermassive Black Hole, ma anche dai due brani a contorno (Starlight e Map Of The Problematique) che giocano con giri di piano spensierati e dreamy (si potrebbero chiamare in causa i Coldplay di Clocks e Speed Of Sound almeno quanto la cosiddetta mediterranean progressive della seconda metà degli anni '90). L'atmosfera cambia decisamente quando entrano in scena le spazzole che battono i sei ottavi di Soldier's Poem, ballad meno malinconica rispetto a quanto ci avevano abituati, sostenuta anche da cori alla Bohemian Rhapsody di Queen memoria. Il tema della guerra viene subito ripreso dalla successiva mistica Invincible, introdotta da una marcetta di rullante e accompagnata da un organo da chiesa; il ritmo si rialza con Assassin e Exo-politics, mentre la sbalorditiva City Of Delusion (che vede la collaborazione del nostro Mauro Pagani all'arrangiamento della sezione d'archi) funge da opening per la trilogia finale che puzza di film western. Infatti sia la sofferta Hoodoo (che parte chitarra e voce, si apre in un sano delirio di pianoforte per poi richiudersi intimamente) che il gotico finale Knights Of Cydonia (con una ritmica a la Judas Priest) incorporano elementi simil-country, estendendo ulteriormente il panorama delle contaminazioni sonore di un album che forse non raggiunge le ambizioni di partenza, ma resta sempre un bell'ascoltare.

8/10

Highlights: Take a bow, Starlight, Supermassive black hole, Invincible, City of delusion, Hoodoo.

Muse - Absolution (2003, PIAS)

"Declare this an emergency / come on and spread a sense of urgency / and pull us through / and this is the end / this is the end of the world"; il terzo disco dei Muse si apre con un tono apocalittico, quasi a volere avvisare che il miracolo si sta per compiere. A conti fatti tale megalomane affermazione ha un senso; Absolution è un album di rara bellezza, che riesce nella difficile impresa di coniugare un certo stile compositivo al gusto dell'ascoltatore medio. Non c'è un pezzo fuori posto; neanche il tempo di assaporare l'oramai consueta overture drammatica ed ecco Time Is Running Out, violento fulmine pop-rock d'autore. Il ritmo si abbassa con un brano intenso come Sing For Absolution, e sono brividi. Ma di rifiatare non se ne parla, visto che è il momento del muro di chitarre distorte eretto da Stockholm Syndrome, con un inciso tanto potente quanto malinconico: "This is the last time I abandon you / and this is the last time I forget you / I wish I could". Prima dell'interludio psichedelico, Falling Away With You offre un'ottima occasione per chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare, mentre subito dopo ci accoglie il basso distorto che apre l'ennesimo wall of sound: Hysteria è la prosecuzione della sindrome di Stoccolma, e ancora una volta si tratta di una vera e propria estasi sonora. C'è da stropicciarsi gli occhi e chiedersi se sia tutto vero quando ci si immerge nell'ascolto del capolavoro dell'album: Blackout è musica classica del 2000, ed è semplicemente imbarazzante il pathos che crea la progressione vocale sostenuta da quegli archi tremolanti: "Don't kid yourself / and don't fool yourself / this life could be the last / and we're too young to see". Butterflies & Hurricanes si assesta sullo stesso mood, osando se possibile ancora di più nella sua verve cinematica; e cosa dire, se non meraviglia, di quella pausa di pianoforte? Anche se pare impossibile, la vena non si esaurisce, perché l'arrabbiata The Small Print, la sognante Endlessly l'incalzante Thoughts Of A Dying Atheist e la funerea Ruled By Secrecy tengono alta la tensione fino all'ultimo secondo. Mille parole non basterebbero, un ascolto invece è più che sufficiente per rendersi conto di quanto sia essenziale questo disco.

9/10

Highlights: Tutto.

Muse - Hullabaloo soundtrack (2002, PIAS)

Hullabaloo è una raccolta di b-side uscite fra il 1999 e il 2001, e come tale soffre del problema di non avere un vero filo conduttore (per non parlare del fatto che ovviamente alcune tracce suonano come dei riempitivi - dopotutto ci sarà un motivo se sono uscite come lati b). Ciò nonostante, i 10 pezzi scorrono in maniera decisamente piacevole, con più di un picco emozionale nei lenti (Shrinking Universe, Shine Acoustic e la soffertissima Hyper Chondriac Music) e nell'atmosfera che creano i pezzi strumentali (Forced In, The Gallery).

7.5/10

Highlights: Forced in, Shrinking universe, Map of your head, Shine acoustic, The gallery, Hyper chondriac music.

7.30.2006

Muse - Origin of symmetry (2001, PIAS)

Il secondo tassello della discografia dei Muse appare fin da subito decisamentepiù spinto rispetto a Showbiz (l'unica ballad è Screenager, che peraltro non c'entra niente con quelle presenti nel primo album), ma al contempo più sognante grazie ad un uso elevato all'ennesima potenza del pianoforte (strumento che ora sembra essere il prediletto di Matthew Bellamy). I pezzi che aprono Origin Of Symmetry creano un'atmosfera unica, dalle evoluzioni di New Born all'introspettiva Space Dementia, dallo space-rock di Bliss all'incedere sfrontato di Hyper Music. Plug In Baby è di una potenza devastante, mentre Citizen Erased raggiunge dei livelli di profondità rari. Il disco mantiene un solido filo logico da cima a fondo, esaltandosi nel finale con una cover sopra le righe di Feeling Good e con l'inquietante Megalomania. Una prova di maturità bella e buona.

9/10

Highlights: Tutto.

Muse - Showbiz (1999, PIAS)

Al liceo si chiamavano Gothic Plague, poi diventarono Fixed Penalty, Rocket Baby Dolls e infine Muse; Matthew Bellamy, Chris Wolstenholme e Dominic Howard sono un trio inglese che invece di incolonnarsi nel filone brit preferisce ispirarsi all'alternative rock anni 90 di stampo americano (anche se il fantasma dei Radiohead aleggia sullo sfondo, non fosse altro per il falsetto di Bellamy che ricorda in alcuni frangenti Thom Yorke). Showbiz è perfetto nel descrivere l'attitudine della band: dall'epica apertura affidata a Sunburn (brano che mostra l'istruzione classica dei tre) all'irresistibile singolo Muscle Museum (che se vogliamo fa un po' Creep), passando per ballad ben scritte (Falling Down, Unintended) e piccole perle come Uno e Escape, che alternano strofe dolci e sussurrate a ritornelli decisi.

7.5/10

Highlights: Sunburn, Muscle museum, Fillip, Falling down, Unintended, Uno, Escape.

7.29.2006

Skunk Anansie - Post orgasmic chill (1999, Virgin)

Giunge anche per gli Skunk Anansie la svolta major, con tutte le implicazioni del caso; fortunatamente le esigenze di una label che vuole vendere vengono soddisfatte con dei pezzi di tutto rispetto. "You'll follow me down" è una ballad strappalacrime emozionante, "Secretly" è intoccabile nella sua perfezione; sulla stessa linea si collocano "Tracy's flow" e "Good things don't always come to you", mentre "Charlie big potato" è un altro singolo che ricalca le orme crossover del primo album senza però conservarne l'originaria limpida energia. I rigurgiti punk di "On my hotel t.v." e "The skank heads" non convincono appieno, molto meglio allora il funk sporco di "Lately"; appaiono un po' scontate le melodie di "I'm not afraid" e "Cheap honesty", sintomo dell'innegabile declino di una band che due anni dopo questo album si scioglierà, lasciando comunque un buon ricordo di se nella storia del rock.

7/10

Highlights: Tracy's flow, Lately, Secretly, Good things don't always come to you, You'll follow me down.

Skunk Anansie - Stoosh (1996, One Little Indian)

Sin dalle prime note che aprono "Stoosh" ci si accorge che anche se è trascorso solo un anno dal disco di debutto il suono della band londinese si è modificato in maniera tangibile; le ritmiche sono meno metal e più rock, la voce di Skin gode di un maggior risalto e l'intera produzione è più curata e meno punk. Tali aspetti tecnici si riflettono anche nell'essenza della musica, più incline a pause e momenti rilassati immancabilmente compensati da ritornelli strillati ed energetici, in un'altalena che finirà per diventare il marchio di fabbrica degli Skunk Anansie; "She's my heroine", "Brazen (weep)" e soprattutto "Hedonism (just because you feel good)" seguono tutte questo preciso paradigma. Il link all'album precedente è "Yes it's fucking political", mentre brani come "All I want" e "Twisted (everyday hurts") sanciscono un'evoluzione pop pur conservando l'anima di "Paranoid & sunburnt"; vanno oltre "We love your apathy", "Infidelity (only you)" (ballad pura con tanto di archi) e "Pickin' on me" (praticamente folk), pezzi di facile assimilazione ma comunque gradevoli. Resta invece un immenso punto di domanda sulla conclusiva "Glorious pop song", che sembra appartenere non solo ad un altro disco, ma proprio ad un'altra band; particolare che comunque non intacca il valore dell'album, che sfoggia una maturazione consapevole e di stile.

8.5/10

Highlights: All I want, Infidelity (only you), Hedonism (just because you feel good), Twisted (everyday hurts), We love your apathy, Brazen (weep), Pickin' on me.

Skunk Anansie - Paranoid & sunburnt (1995, One Little Indian)

L'esordio degli Skunk Anansie avviene al momento giusto, in un mercato che già da qualche tempo ha assaporato il gusto del crossover grazie soprattutto ai Rage Against The Machine, capaci di rinfrescare lo stantio panorama dell'heavy-metal con un'apertura verso l'hip-hop e di conseguenza di portare un genere di nicchia alla luce del sole; pezzi come "Selling Jesus", "All in the name of pity" e "And here I stand" sono figli di quella scena, ma al posto delle rime rivoluzionarie di Zack De La Rocha c'è l'inconfondibile timbro di Deborah Anne Dyer, meglio nota come Skin, per l'occasione arrabbiata come mai. Apprezzabilissimi gli inserti funk di Richard "Cass" Lewis al basso che riportano alla mente le evoluzioni di Flea dei Red Hot, ottime anche le ballad (o supposte tali) "Charity", "Weak" e "100 ways to be a good girl"; un disco completo e convincente, nonchè importante per l'effetto che avrà sul mercato e sulla cultura musicale del popolo.

8/10

Highlights: Selling Jesus, I can dream, Little baby swastikkka,Charity, Weak, 100 ways to be a good girl.

7.28.2006

dEUS - Pocket revolution (2005, V2)

Il ritorno dei dEUS sei anni dopo il loro ultimo disco e il successivo Greatest Hits che metaforicamente concludeva una parte della loro storia (ma il pensiero di chiudere del tutto forse c'è stato) è un album pop/rock raffinato e leggero; la band belga mette da parte le stramberie del passato decennio per scegliere uno stile più mainstream e a tratti abbastanza scontato. L'incedere progressivo di pezzi come "Bad timing" e "If you don't get what you want" è azzeccato e coinvolge l'ascoltatore, e anche le soffici "7 days 7 weeks" e "Nothing really ends" risultano piacevoli anche se costantemente alle prese con quella maledetta sensazione di già sentito; le pecche sono da ricercarsi nell'eccessivo trascinarsi di alcuni brani (What we talk about", "Include me out") e nell'inconsistenza di troppi altri ("Stop-start nature", "Nightshopping", "Cold sun of circumstance" su tutti).

5.5/10

Highlights: Bad timing, 7 days 7 weeks, If you don't get what you want, Pocket revolution, Nothing really ends.

7.27.2006

Lorenzo "Jovanotti" Cherubini - Buon sangue dopato (2006, Universal)

Dodici stilosissimi remix di alcuni pezzi contenuti in "Buon sangue 2005". In ambito dancefloor spiccano il groove irresistibile che i Planet Funk pensano per "Falla girare", i glitch accattivanti del take di "Una storia di amore" ad opera dei Motel Connection, il beat rimbalzino scuola Switch dei bravissimi Crookers su "Questo è un mondo selvaggio" e la vena electro di un ispirato Stefano Fontana sia nel già noto remix di "(Tanto)3" (insieme ad Alex Neri) che nell'ottima "Mumbojumbo". Da un punto di vista d'ascolto è impeccabile il lavoro dei Casinò Royale che confezionano una "Mani in alto" da brividi, mentre l'Afro 2086 Mix by Gino Latino & Kaneepa di "Falla girare" è un altro episodio memorabile. Una raccolta tutta italiana, ma dal sapore internazionale; more, please.

8/10

Highlights: Falla girare (Planet Funk Mix - Gino Latino & Kaneepa Mix), Mumbojumbo (Stylophonic Bionic Breaks Remix), Mani in alto (Casino Royale Naive Mix), Una storia d'amore (Motel Connection Remix), Questo è un mondo selvaggio (Crookers Remix), (Tanto)3 (Stefano Fontana & Alex Neri Remix).

Lorenzo "Jovanotti" Cherubini - Buon sangue 2005 (2005, Universal)

Potrebbe passare per un album di filastrocche cantate in maniera approssimativa se non fosse per il fatto che i testi hanno un valore inestimabile e gli arrangiamenti di gran parte dei brani sono quanto di meglio ci si possa aspettare dalla musica italiana; applausi meritati per un personaggio che è riuscito negli anni a levarsi quella maschera che lo show business gli aveva imposto rivelando il suo vero io.

8.5/10

Highlights: (Tanto)3, Mi fido di te, Falla girare, Mani in alto, Una storia d'amore, Coraggio, Mi disordino.

7.24.2006

Thom Yorke - The eraser (2006, XL)

Side-project solista di Thom Yorke che non turba l'armonia dei Radiohead, impegnati nelle sessioni che porteranno al prossimo disco nel 2007; anzi, la band ha virtualmente collaborato visto che gran parte dei campioni utilizzati proviene da registrazioni e outtake dei dischi precedenti. "The eraser" è tutto ciò che di buono ci si può aspettare dallo Yorke più impegnato e alternativo; le delicate melodie di "Analyse" e "Harrowdown hill" (le perle dell'album) si incastrano alla perfezione con i beat nervosi e le linee vocali sbilenche di "Atoms for peace" e "And it rained all night", mentre la title-track e "Cymbal rush" con il loro andamento "trance concettuale" sono un'ulteriore evidenza del genio di Thom. Perfezione.

9/10

Highlights: Tutto.

Radiohead - Hail to the thief (2003, Parlophone)

Dopo gli estremi raggiunti con la coppia "Kid a"/"Amnesiac" i ragazzi di Oxford fanno un parziale passo indietro in quanto a sperimentalismi elettronici per tornare a privilegiare la forma canzone in quello che da molti è visto come un concept album (teoria da condividere anche per la presenza di un doppio titolo per ogni pezzo) contro il presidente degli Stati Uniti (che dovrebbe essere il ladro a cui fa riferimento il titolo) e la società americana tutta. In effetti le sperimentazioni più azzardate si trovano negli arrangiamenti di "Sit down. Stand up.", "Backdrifts" e "The gloaming", che sono comunque delle vere canzoni; all'estremità opposta si collocano le più classiche "Go to sleep", "There, there", "Scatterbrain", "2+2=5" e "A punchup at a wedding". In mezzo ci sono "Sail to the moon" (ballad che ricorda i tempi di "Ok computer" con una spruzzata di "Amnesiac"), "We suck young blood" (epico ultra-lento sofferto e trascinato), "I will" (ninna-nanna corale accompagnata solo da una chitarra) e la conclusiva "A wolf at the door". A fine ascolto rimane una spiacevole sensazione di qualcosa che manca rispetto ai cinque dischi precedenti, che comunque non intacca coerenza, professionalità e bravura della band.

7.5/10

Highlights: 2+2=5, Sail to the moon, Backdrifts, We suck young blood, The gloaming, I will, Scatterbrain.

Radiohead - Amnesiac (2001, Parlophone)

Annunciato come la seconda parte di "Kid a" questo disco rappresenta più che altro l'ideale evoluzione del suo predecessore, con il quale condivide l'approccio sperimentale e la quasi totale mancanza di chitarre nell'arrangiamento; la vera differenza fra "Amnesiac" e "Kid a" la fanno pezzi come "Pyramid song" (estatico lamento funereo), "You and whose army?" (sporco e triste folk contaminato) e "Knives out" (dalle sonorità più familiarmente rock). L'evoluzione si coglie anche in un pezzo come "Pulk/pull revolving doors", che pur basandosi esattamente sugli stessi principi che avevano contraddistinto gran parte delle tracce contenute nell'album dell'anno prima suona più particolareggiato e raffinato, in una parola più "giusto"; altro esempio lampante è la reprise di "Morning bell", decisamente più accattivante nella sua nuova veste amnesiaca. Le orchestrazioni arabeggianti accennate in "Pyramid song" si fanno più consistenti in "Dollars and cents", e dopo il poco più che intermezzo "Hunting bears" si fa largo il reverse rotolante e nervoso di "Like spinning glasses", un altro piccolo capolavoro intelligente; "Life in a glasshouse" conclude l'opera con un ritmo jazzy sgangherato che fa a pugni con il delirio improvvisato di fiati e la voce trasognante di Thom Yorke.

8.5/10

Highlights: Tutto.

Radiohead - Kid a (2000, Parlophone)

La brusca sterzata, la conversione, la rivoluzione senza compromessi; "Kid a" fin dal titolo capovolge ogni canone e disorienta nel suo approccio sperimentale e incline alla ripetizione. Le prime tracce di chitarra si captano non prima del quarto brano (l'intima e depressa"How to disappear completely"), essendo i primi tre pezzi degli esercizi di stile che malgrado l'accurata scelta di suoni non impressionano in maniera consistente (eccezion fatta per l'eccellente "Everything in its right place" dall'andamento quasi trance). Dopo l'interludio "Treefingers" (musica ambient pura) riappare la forma canzone con l'interessante "Optimistic" e la più vaga "In limbo", mentre con il loop distorto di "Idioteque" si raggiungono dei picchi di techno emozionale non proprio comuni. La successiva "Morning bell" parte benissimo, ma finisce per perdersi in percorsi troppo involuti; fortunatamente a concludere il disco ci pensa l'evocativa e delicata "Motion picture soundtrack", ennesima lezione di stile.

8/10

Highlights: Everything in its right place, How to disappear completely, Optimistic, Idioteque, Motion picture soundtrack.

Radiohead - Ok computer (1997, Parlophone)

Avere scritto "The bends" rappresenta senz'altro un motivo di orgoglio, ma si pone al contempo come pesantissima pietra di paragone per gli album a venire, giustificando domande come "è più giusto seguire la scia o forse è meglio cambiare completamente rotta perchè quello che è stato fatto così bene in quel disco non venga intaccato da insipidi follow-up?"; i Radiohead rispondono a questa spinosa questione con il titolo del nuovo disco, che però ne riflette solo in parte i contenuti. Vero, l'utilizzo di sequencer e strumentazione elettronica si fa leggermente più consistente (le atmosfere surreali di "Subterranean homesick alien" e di "Climbing up the walls" sono un ottimo esempio del modo in cui viene implementato l'uso di tecniche meno rock) e c'è una traccia concettuale e computerizzata come "Fitter happier" inequivocabilmente posta al centro del disco; ma pezzi come "Airbag" e "Electioneering" rimandano ai Radiohead di "Pablo honey" e "Let down" è parente stretta di "My iron lung". L'idea di pubblicare come singolo l'intricata "Paranoid android" rappresenta una precisa scelta di anti-convenzionalità poi compensata da "No surprises" e "Karma police", che strizzano un occhio alla radio in maniera più evidente (pur senza scadere nello scontato). Il resto di "Ok computer" è uno slow jam cupo e magnificamente tenebroso, perennemente sospeso sul bordo dell'inquietudine.

10/10

Highlights: Tutto.

Radiohead - The bends (1995, Parlophone)

"The bends" non è un comune disco; la definizione "esperienza indimenticabile" probabilmente si presta meglio a descriverne la natura. La sconvolgente apertura è affidata ad un pezzo bastardo come "Planet telex" (la perfetta sintesi di rock e trip-hop) seguita dalla propotente title-track, e lasciarsi portare via è un attimo; se poi si pensa che subito dopo questa botta di energia positiva sfilano due brani magici come "High and dry" e "Fake plastic trees" ogni dubbio a riguardo della qualità di quest'album viene spazzato via. Anche "Nice dream" e "Bullet proof...I wish I was" contengono quel tipo di magia acustica e sussurrata, mentre la doppietta "Just"-"My iron lung" è il lato più splendidamente pop della band che viene a galla libero da ogni tipo di inibizione. "Black star" e "Sulk" sono due ballad che possono apparire scontate solo ad un primo ascolto, rivelandosi invece (se analizzate con attenzione) come dei piccoli capolavori dalla perfetta circolarità; la chiusura cinematica e sofferta di "Street spirit (fade out)" è l'ultimo grandioso, anthemico tassello di una vera opera d'arte destinata ad essere ricordata nel tempo.

9/10

Highlights: Tutto.

Radiohead - Pablo honey (1993, Parlophone)

L'essenza più rock'n'roll di una band che col tempo si farà ricordare anche e soprattutto per qualcosa di più. "Pablo honey" tredici anni dopo la sua release ufficiale appare ingenuo, o quantomeno innocente, ma contiene già i semi del genio; "Stop whispering", "Anyone can play guitar" e "Prove yourself " esaltano il talento vocale di Thom Yorke con arrangiamenti semplici ma pensati (aspetto che si traduce in pop-spasmo con l'immortale, imprescindibile "Creep"), mentre la propensione alla scrittura di ballad memorabili fa capolino con "Lurgee" e l'acustica "Thinking about you".

8/10

Highlights: You, Creep, Stop whispering, Thinking about you, Anyone can play guitar, Prove yourself, I can't, Blow out.

7.23.2006

Queens Of The Stone Age - Lullabies to paralyze (2005, Interscope)

I paladini del post-grunge in una forma invidiabile.

8.5/10

Highlights: This lullaby, Everybody knows that you're insane, Tangled up in plaid, In my head, I never came, Someone's in the wolf, The blood is love.

7.20.2006

Bright Eyes - Lifted - or - The story is in the soil, keep your ear to the ground (2002, Wichita)

Il processo di maturazione di Conor Oberst che giunge a compimento in un concept intimo e fiabesco.

8/10

Highlights: Method acting, False advertising, Lover I don't have to love, Don't know when but a day is gonna come, Nothing gets crossed out.

7.10.2006

Bright Eyes - Letting off the happiness (2001, Wichita)

I primi vagiti di Conor Oberst datati 1998 ma riesumati tre anni dopo a seguito del buon "Fevers and mirrors" del 2000; lo-fi che penetra anche e soprattutto attraverso la poesia dei testi. Once again, un avviso ai puristi della tecnica: astenetevi, e lasciate "Letting off the happiness" a chi predilige le emozioni.

7.5/10

Highlights: Padraic my prince, Contrast and compare, The difference in the shades, June on the west coast, Pull my hair, A poetic redelling of an unfortunate seduction.

7.08.2006

Blur - Think tank (2003, Parlophone)

Ci sono due cose fondamentali da tenere a mente avvicinandosi a "Think tank". La prima è che si tratta del primo album scritto senza l'apporto di Graham Coxon, allontanatosi dalla band e ora solista; la seconda è che questo disco esce dopo la nascita del side-project di Damon Albarn, ovvero i Gorillaz. Tali nette divisioni nel loro percorso storico sono sancite dal "Best of" del 2000 e dallo smistamento delle uscite targate Blur da Food a Parlphone (comunque una label imparentata con la Emi). Musicalmente parlando questo ottavo capitolo prosegue il discorso iniziato con "13", ovvero continuando a sperimentare con l'apporto in produzione di Ben Hillier (Suede e Elbow), William Orbit (in "Sweet song") e Norman Cook che ci mette del suo in un paio di non propriamente eccelsi pezzi (il singolo "Crazy beat" e "Gene by gene"). Il meglio viene fuori con le atmosfere semi-acustiche o comunque lente della splendida "Out of time", dell'altrettanto valida "Good song", della più cupa "On the way to the club", della già citata zuccherosa "Sweet song" e della conclusiva "Battery in your leg"; dimenticati episodi come il punk di "We've got a file on you"e le sperimentazioni della hidden track all'inizio del cd si classifica come un album in linea con le potenzialità dei Blur che verrà però ricordato per le ballad piuttosto che per i pezzi più energici.

7.5/10

Highlights: Out of time, Crazy beat, Good song, On the way to the club, Sweet song, Battery in your leg.

7.07.2006

Blur - 13 (1999, Food)

Tredici come il numero di pezzi inclusi in questo sesto disco dei Blur (solo una volta, con "The Great Escape", avevano tradito il credo nel numero pari di canzoni che consentiva loro di dividere virtualmente gli album in due parti uguali), ma anche inteso come "lucky 13" di buon auspicio. Spunta la figura di William Orbit (fresco di una produzione importante e di successo come "Ray of light" di Madonna e già remixer di tre brani del precedente "Blur"), al quale i quattro si affidano forse nel tentativo di modernizzare il loro suono. Sembra quasi un paradosso quindi che i singoli "Coffe & tv" e "Tender" suonino così classici, ma evidentemente avere William nei dintorni fa bene alla band, perchè sono due pezzi semplicemente perfetti; il primo intriso di quel malessere english senza speranza e trainato da un video geniale, il secondo sapientemente gospel, da brividi lungo la schiena. Tali brani rappresentano peraltro le uniche eccezioni dove la mano del producer rimane più nascosta, perchè tutto il resto è contaminato dal gusto elettronico di Orbit che plasma le composizioni di Damon Albarn senza però stravolgerle; gli esempi più riusciti sono "1992", "Battle", "Trailerpark" e "Caramel". Menzione a parte merita un pezzo profondo come "No distance left to run", riflesso del dolore del frontman per la sua relazione andata in frantumi.

8/10

Highlights: Tender, Coffe & tv, 1992, Battle, Trailerpark, Caramel, No distance left to run.

7.06.2006

Blur - Blur (1997, Food)

Non è un caso se il quinto disco dei Blur viene intitolato semplicemente con il nome della band; dopo un momento difficile come quello che ha seguito la sfida persa con gli Oasis e le voci di un presunto scioglimento, il quartetto si reinventa puntando dritto verso oltreoceano e quindi favorendo uno stile alternative rock più consono ai gusti americani. Lo si capisce già dal primo singolo che apre il disco, "Beetlebum", seguito a ruota da una hit mondiale come "Song 2"; il rumore delle chitarre elettriche e Damon Albarn che urla "Well I feel heavy-metal" sono una presa di posizione coraggiosa che inevitabilmente finisce per sancire una netta divisione fra i fan che apprezzano il cambio di marcia e quelli che invece rimpiangono i tempi dell'esplosione del brit-pop. Dei due singoli successivi "On your own" convince più della contestata (dai legali di David Bowie) "M.o.r.", mentre nè lo pseudo dub di "Theme from retro" nè la sporca e mezza stonata "You're so great" lasciano il segno come dovrebbero, anche se si intuiscono delle buone potenzialità; che fortunatamente vengono a galla con la splendida cupezza quasi trip-hop di "Death of a party", brano che riporta lo standard di qualità a dei livelli considerevoli. Con "Chinese bombs" e "I'm just a killer for your love" si ricade nell'errore di buttare li dei pezzi che forse con una cura maggiore avrebbero reso di più, vedi "Look inside America" e "Strange news from another star", ultimi bagliori di un buon album che se non ne avesse avuti altri quattro alle spalle sarebbe stato accolto in tutt'altro modo.

7.5/10

Highlights: Beetlebum, Song 2, Country sad ballad man, On your own, Death of a party, Look inside America, Strange news from another star.

Blur - The great escape (1995, Food)

"The great escape" segna un momento importante nella storia dei Blur; l'attenzione che si sono guadagnati con un album numero uno come "Parklife" (confermata dall'interesse di una major come la Virgin) mette pressione alla band, che reagisce alla sfida lanciata dai fratelli Gallagher ritardando l'uscita del primo singolo "Country house" di una settimana per facilitare il faccia a faccia con il nuovo "Roll with it" degli Oasis. La battaglia è vinta, ma alla fine le vendite daranno ragione a "What's the story, morning glory?" che riuscirà a conquistare anche il mercato americano. Al di là di queste schermaglie che alla fine sono un bello show ma contano poco, il quarto disco di Albarn e soci segna un netto miglioramento dal punto di vista dei testi (forse la grande fuga è quella che ricorre nei pensieri di uno stereotipo come Ernold Same, un uomo privo di fascino e afflitto dalla monotonia della sua vita) e punta sulla ormai tipica partenza bruciante; "Stereotypes", "Country house", "Best days" e "Charmless man" sono un condensato di brit-pop allo stato puro, e annicchiliscono al primo ascolto. Purtroppo i pezzi successivi non riescono a mantenere un tale livello di intensità, fatta eccezione per l'ispiratissima "The universal", la malinconica "He thought of cars" e la conclusiva intrigante "Yuko & Hiro"; nonostante un pugno di brani non indimenticabili le attese non vengono tradite in toto, e il disco si attesta come degno follow up di "Parklife".

8/10

Highlights: Stereotypes, Country house, Best days, Charmless man, The universal, He thought of cars, Yuko & Hiro.

Blur - Parklife (1994, Food)

Anticipato dal ciclone "Girls & boys", pezzo entrato di diritto nella storia del brit-pop, e a distanza di un solo anno dal precendente "Modern life is rubbish" arriva il disco della consacrazione dei Blur. Il singolo per eccellenza (spinto anche da un remix dei Pet Shop Boys) cattura l'attenzione non solo per la melodia ultra-orecchiabile, ma anche per l'azzeccato testo dagli espliciti ammiccamenti di stampo sessuale e, particolare da non sottovalutare, finirà per diventare un inno anche nelle comunità gay; i Blur non sono più solo una rock band, i Blur si ballano nei club. Se dopo avere aperto le danze (in tutti i sensi) con un brano di tale potenza si prosegue con l'intrigante cowboy-pop di "Tracey jacks" e con la perfetta "End of a century" si capisce perchè questo diventerà un disco memorabile; la title track "Parklife" e "Bank holiday" insieme ai due poco più che intermezzi "The debt collector" e "Far out" fanno riprendere fiato, interrotte però da un altro pezzo che si ricorda, "Badhead". Fine del lato A. Ed ecco la magia: la fiabesca "To the end", ballad disillusa e nostalgica, è una delle composizioni meglio riuscite in tutta la loro storia. Sfilano poi le più scontate ma comunque degne di menzione "London loves" e "Magic America", mentre l'acuto finale è rappresentato dalla toccante "This is a low", ideale prosecuzione della depressione di un giorno di pioggia di "Sing" del primo album.

8.5/10

Highlights: Girls & boys, Tracy jacks, End of a century, Badhead, To the end, London loves, Magic America, This is a low.

Blur - Modern life is rubbish (1993, Food)

Il secondo lavoro dei Blur arriva due anni dopo il disco di debutto e i passi avanti si sentono; la produzione è molto più curata (compaiono degli arrangiamenti per archi, degli strumenti a fiato e perfino dei synth vintage in "Coping") e la band si libera dalla timidezza, particolare riscontrabile per esempio nella maggior sicurezza di Damon Albarn nel cantare (pur non avendo una voce sconvolgente), aiutato in maniera consistente dai cori degli altri membri. "Modern life is rubbish" si presenta con un solo singolo ("For tomorrow"), che insieme alla successiva "Advert" apre un album energetico e spensierato nel migliore dei modi; gli altri picchi sono le contagiose "Star shaped" e "Sunday sunday", le più rilassate ma ugualmente efficaci "Blue jeans" e "Chemical world" e il seppur parziale ritorno a melodie più malinconiche di "Miss America".

8/10

Highlights: For tomorrow, Advert, Star shaped, Blue jeans, Chemical world, Sunday sunday, Miss America, Coping, Turn it up.

7.05.2006

Blur - Leisure (1991, Food)

L'acerbo esordio datato 1991 della band composta da Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree ne svela immediatamente pregi e difetti; l'innegabile capacità compositiva, intesa nel senso di sapere comporre dei ritornelli orecchiabili ma non scontati, si intravede nel primo singolo "She's so high" e in pezzi come "There's no other way" e "High cool", mentre sia l'interpretazione che gli arrangiamenti sono molto essenziali, quasi punk. I momenti memorabili sono di sicuro quelli più decadenti, riassumibili nella struggente "Sing" (non a caso poi scelta per la colonna sonora di un film come "Trainspotting") e nelle conclusive "Birthday" e "Wear me down".

7/10

Highlights: She's so high, Sing, There's no other way, High cool, Birthday, Wear me down.

7.04.2006

Nico - The end (1974, Island)

Misteriosa avant-garde gotico-psichedelica con produzione di John Cale e synth by Eno. La voce di Nico non sarà stata la più bella della storia della musica, ma in questo contesto calza alla perfezione.

8.5/10

Highlights: It has not taken long, You forgot to answer, Innocent and vain, The valley of the king.

7.03.2006

Red Hot Chili Peppers - Stadium arcadium (2006, Warner Bros)

Purtroppo il mio status di "non proprio fan accanito" dei Red Hot non mi consente di esprimere un giudizio competente a riguardo della diatriba che ha diviso i supporter della band negli ultimi tempi con l'accusa di eccesso di "sdolcinaggine"; personalmente ho apprezzato molto il loro lato più pop e melodico (quello di "By the way", per intenderci) e questo nuovo disco non si discosta molto da quel tipo di sonorità. E quindi ben vengano ballad come "She looks to me" e la title track "Stadium arcadium", ma anche i più classici spunti funk stile "Hump de bump" e "Tell me baby", e, perchè no, pure il rock rumoroso ma piacevole del singolo "Dani California" e di "So much I" . Unico appunto, quasi inevitabile: il doppio album è una di quelle scommesse ardue da vincere, soprattutto se non c'è un concetto a reggere il tutto ma si tratta solo di un Lp più lungo, che alla fine può stancare anche il più hardcore dei fanatici. Forse un solo cd sarebbe stato più che sufficiente.

7/10

Highlights: Dani California, Charlie, Stadium arcadium, Hump de bump, Tell me baby, She looks to me, Readymade, If, So much I, Storm in a teacup.

Fatboy Slim - Why try harder - The greatest hits (2006, Skint)

Ladies & gentlemen: Norman Cook e il suo invidiabile repertorio, più due immortali remix e un paio di inediti. Cosa chiedere di più?

9/10

Highlights: Tutto.

Superchumbo - Wovie zowie (2005, Twisted)

È grazie a Tom Stephan (aka Superchumbo) e la sua "Revolution" che l’etichetta di culto Twisted è riuscita a tornare a fare parlare di se dopo i due anni di crisi (1999-2001) dovuti alla conclusione dei rapporti con la Universal, il gruppo che l’aveva accompagnata nella seconda metà degli anni 90 con release epiche quali “Tourism” di Danny Tenaglia e “Get fired up” dei Funky Green Dogs. Il dj newyorkese ha ora alle spalle almeno quattro hit che giustificano pienamente questo album di debutto, denso di collaborazioni di livello (Sylvia Mason James, Samantha Fox, The Base Boys per citarne alcune) e forte di una produzione impeccabile. Lo stile è quello che già conosciamo, house elettronica sporca, dritta e sfrontata, l’aspetto percussivo sempre in primo piano (senza per questo sfociare nel tribal) e un’ironia costante che trasuda fin dal titolo stesso del disco.

7.5/10

Highlights: Some, Irresistible, U know I love it, Dirty filthy, This beat is, Revolution.

Dj T. - Boogie playground (2005, Get Physical)

Il cammino percorso dal tedesco Thomas Koch è un’esempio di costanza e passione che alla lunga l’ha portato sotto la luce dei riflettori soprattutto per le sue ultime ottime produzioni fra il 2004 e il 2005; 36 anni fra infatuazioni electro e breakbeat, la fondazione di una testata tedesca (Groove) della quale è stato editore fino allo scorso dicembre, un’etichetta fortemente voluta (la Get Physical Music) che ha visto la luce nel 2002 e residenze in club di prestigio nei dintorni di Francoforte. Il suono di Dj-T è un miscuglio di electro, funk e disco che pur seguendo la scia delle produzioni dei giorni nostri si distingue per eleganza e stile, riuscendo ad essere tanto potente in pista quanto gradevole all’ascolto; e questo suo album di debutto ne esemplifica al meglio l’attitudine, muovendosi con grazia dalle atmosfere post-disco di "Funk on you" e "Freemind" per arrivare a momenti meno delicati e se vogliamo un po’ più acid quali "Neon" e "A guy called Jack".

8/10

Highlights: Funk on you, Galaga, Rising, Marching theme, Neon, Freemind, Rimini.