3.26.2020

10 anni di I Mistici Dell'Occidente dei Baustelle


“Non angosciarti più / Che bisogno c'è?
Quando partono le rondini / Lasciale andare
Non domandare più / Che ragione c'è?
Quando passa il carro funebre / Fallo passare”

Comincia così L'Indaco, il primo pezzo del quinto album dei Baustelle. Le voci all'unisono di Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi irrompono dopo quasi due minuti di introduzione strumentale, incitando un'agrodolce accettazione della realtà. Cosa potrebbe simboleggiare quel carro funebre che se ne va, spingendo il trio di Montepulciano a sconsigliare di porsi domande a riguardo? Forse il mercato discografico, che poi è il microcosmo in cui vivono, sempre più sull'orlo del baratro. Oppure un mercato ben più ampio: quello della società occidentale, che grazie alle sue regole impietose (e da un punto di vista strettamente umano poco sensate) è destinato prima o poi ad implodere.


“Sarebbe comodo / Andarsene per sempre / Andarsene da qui / Andarsene così”, recitavano le ultime parole del brano di congedo del disco precedente. Sarebbe senz'altro comodo, ma non servirebbe a risolvere il problema. Per questo un'affermazione come “Non è impossibile pensare un altro mondo”, timido barlume di speranza che affiora in Andarsene Così sul finale del disfattista Amen, diventa il mantra di I Mistici Dell'Occidente. O almeno, ci prova: “E non buttarti giù / Che in fin dei conti c'è / Un azzurro che fa piangere / Oltre le nubi”. Parole che suonano quantomai attuali nell'assurdo momento storico che stiamo vivendo, e che probabilmente in questi giorni ci ripetiamo l'un l'altro per farci coraggio. Ma parlare di profezia sarebbe sbagliato: dopotutto, Bianconi ha sempre dichiarato di volere soltanto osservare scrupolosamente la realtà che lo circonda, riversando i suoi pensieri nei testi delle sue canzoni. «Qui dentro ci sono le parole più ottimiste che abbia mai scritto – mi ha raccontato in un'intervista di dieci anni esatti fa, il giorno prima della pubblicazione di I Mistici Dell'Occidente – Sono convinto che in qualche modo ci salveremo. Magari “Disprezzando la realtà”, come dico nella traccia che dà il titolo al disco. Un'espressione che non vuole essere altezzosa: con “disprezzare” intendo suggerire che non è obbligatorio credere ai prezzi che vediamo in vetrina. Il valore non può essere misurato solo attraverso i soldi. Non è l'unico modo culturale possibile».


Una delle ragioni principali che mi hanno fatto innamorare dei Baustelle è il linguaggio che utilizzano, in perfetto equilibrio tra poesia e disincanto. Nei loro testi ho sempre trovato metafore azzeccate, osservazioni acute, disamine sincere e citazioni di alto livello; non ultima quella dell'omonima antologia curata dallo storico e filosofo Elémire Zolla (I Mistici Dell'Occidente, appunto). Nel libro del 1963 Zolla raccoglie gli scritti dei veri mistici e ne dà una sua interpretazione, ponendo l'accento in particolare sulla transitorietà della vita sancita da credi e religioni, che sottolineano quanto la la redenzione e la vera felicità si possano raggiungere solo alla fine del percorso terreno. Applicando a loro modo la lezione di Zolla, i Baustelle si cimentano in una sfida proibitiva: tentare di trovare rimedio al declino culturale della società moderna senza scivolare in composizioni didascaliche o asettiche. «Abbiamo preso in prestito solo il punto di partenza del ragionamento di Zolla – precisa Francesco – Anche se la nostra è un'ottica laica, crediamo che sia importantissimo provare ad immaginare altri metodi per organizzare questo mondo».


“Gentili ascoltatori, siamo nullità”; un modo carino e forbito per esprimere l'intolleranza alla macchina consumistica in cui siamo invischiati. Accuse che raggiungono l'apice della crudezza in La Bambolina, brano che descrive l'emancipazione illusoria della donna (“La bambolina (…) si espone in vetrina / si piega, si inchina / al tempo al potere / si guarda il sedere / È grassa, si sente così”), augurandosi che una divinità qualsiasi la salvi “Dai sogni e dai falsi bisogni” e la aiuti a ritrovare la libertà (“Non compri, non esca / Non cresca, sia vera”). Per eludere l'impatto negativo del materialismo forse basterebbe evitare di crescere. “Quel che impari dalla vita non è vero”, sentenzia Bianconi in San Francesco, chiarendo il concetto nella biografia della band: «A livello emotivo, la giovinezza è il periodo di maggiore felicità dell'uomo. Quando sei piccolo vedi nel tuo futuro mille mondi diversi tutti possibili, dal cowboy all'astronauta fino all'ingegnere o al musicista; poi gli interruttori delle opzioni cominciano man mano a spegnersi e si entra in un'altra dimensione».


Sfortunatamente, la strada dell'eterna giovinezza non è percorribile: non rimane dunque che rifugiarsi nell'amore. Quello puro de Gli Spietati, per esempio; “C'è un amore che non muore mai / Più lontano degli dei / A sapervelo spiegare / Che filosofo sarei”. O quello estremo e passionale - perfino sbagliato - che culmina nel crudo “Vamos a matar” di La Canzone Della Rivoluzione. «Nessuno vuole giustificare il ricorso alla violenza, ma in questi giorni di ristagno culturale c'è da rimpiangere le epoche in cui c'erano idee forti e la volontà di difenderle ad ogni costo». Non è un caso, dunque, che la contrapposizione tra amore e violenza faccia capolino ben 7 anni prima della pubblicazione del disco che porterà quel titolo. Fa tutto parte di un percorso che i Baustelle avevano iniziato nel 2000, esplicitando la propria immaturità senza vergogna nel titolo dell'esordio (Sussidiario Illustrato Della Giovinezza). Un percorso nel quale I Mistici Dell'Occidente viene però giudicato come qualcosa di molto simile al proverbiale passo falso.


Anche io, pur essendo un fan dichiarato, ho fatto una certa fatica a metabolizzarlo. Dopo il sorprendente La Malavita e il conclamato Amen, mi aspettavo la consacrazione definitiva; ma ho subito intuito che un disco simile non avrebbe mai sfondato, soprattutto per l'evidente carenza di singoli (gli unici due pezzi suonati dalle radio saranno Le Rane e la già citata Gli Spietati). È stata una delle prime domande che ho rivolto a Francesco quel 25 Marzo del 2010, ottenendo la risposta di chi sa di non potere fare altro che seguire onestamente il proprio istinto: «In un certo senso mi fa piacere che tu non abbia individuato dei singoli, ed è un punto di vista che condivido, trattandosi di canzoni piuttosto riflessive. Lo vedo come un atto di coraggio; se fai un mestiere creativo devi essere disposto a rischiare qualcosa, e noi lo siamo». Pur raggiungendo il traguardo di disco d'oro e sfiorando la Targa Tenco, I Mistici Dell'Occidente finisce così per essere catalogato come “il disco strano” dei Baustelle. Perfino i diretti interessati hanno ammesso che si trattasse di una sorta di piano B, registrato in attesa di dedicarsi ad un progetto orchestrale ben più ambizioso che in quel momento per varie ragioni non era possibile realizzare. Un album che però a posteriori si rivela prezioso, diventando l'ideale anello di congiunzione tra il rock di Amen e il folk sinfonico di Fantasma. Una ricerca lodevole, ma in parte incompiuta, della verità. Un lavoro che naviga senza vento, composto nella consapevolezza che il tempo ci sfugge, ma il segno del tempo rimane.

2.29.2020

20 anni di Machina degli Smashing Pumpkins


In occasione del ventesimo anniversario del debutto degli Smashing Pumpkins, Billy Corgan annuncia di volere ripubblicare tutti i dischi che hanno definito la prima era della band di Chicago. La promessa viene mantenuta: tra il 2011 e il 2012 spuntano le rimasterizzazioni di Gish, Siamese Dream, Mellon Collie & The Infinite Sadness e perfino di Pisces Iscariot, raccolta di b-side e outtake talmente ben riuscita da guadagnarsi la reputazione di un vero e proprio album. Ma nel 2014, quando arriva il turno di Adore e Machina, Corgan dichiara che la ristampa dell'ultimo tassello subirà un ritardo a causa di questioni legali. Purtroppo la risoluzione degli impicci burocratici non porta a nulla di concreto: la riedizione incontra un nuovo ostacolo nelle elucubrazioni mentali di un Billy intenzionato a presentare il disco nella sua versione definitiva, quella che non era riuscito a realizzare pienamente nel 2000.


La performance iniziale di Machina/The Machines Of God, che esce il 29 Febbraio del 2000, è tutt'altro che negativa: nella prima settimana raggiunge il podio sia in America che in diversi stati d'Europa. A far suonare l'allarme, semmai, sono i singoli: The Everlasting Gaze e Stand Inside Your Love non replicano il successo di Ava Adore e Perfect, che peraltro avevano già rappresentato una brusca frenata rispetto a due assi pigliatutto come Bullet With Butterfly Wings e 1979. Machina scivola così troppo presto nell'oblio, sancendo la fine commerciale degli Smashing Pumpkins. Un declino in qualche modo prevedibile, visti i continui cambi di line-up; al nuovo reclutamento di Jimmy Chamberlin, precedentemente allontanato per problemi di droga, fa da contraltare l'addio di D'Arcy Wretzky. Il posto della bassista, nei video e nei concerti, lo prende l'ex-Hole Melissa Auf der Maur. Ma il 23 Maggio del 2000 Billy Corgan annuncia pubblicamente che dopo il tour gli Smashing Pumpkins si congederanno definitivamente dalle scene, lasciando un ultimo regalo in free download ai fan (Machina II/The Friends And Enemies Of Modern Music).


«In quel momento non potevo accettare che il pubblico non riuscisse a capire Machina – rivela Billy in un'intervista del 2014 – Ma ora sì. Nonostante i miei amici musicisti e molti critici musicali l'avessero apprezzato, per la maggior parte degli ascoltatori era un disco alieno e scuro, troppo difficile da digerire. Quando si parla di musica pop, ci deve sempre essere un elemento che stimola chi ascolta ad approfondire. E Machina, sia ai tempi che per come esiste ora, si comporta in modo diametralmente opposto: non ti invita all'ascolto, ma ti tira un pugno in faccia e si aspetta che tu stia zitto e buono a sorbirtelo per due ore. Non è stata una scelta saggia, e mi prendo tutte le responsabilità del caso».


Eppure, il progetto Machina era cominciato all'insegna di una visione ben precisa: l'approccio teatrale, con tanto di maschere volutamente esagerate, era stato pensato come reazione al modo in cui i componenti della band venivano descritti dalla stampa e percepiti dal pubblico. Una decisione che amplifica il discorso iniziato ai tempi di Mellon Collie, quando Billy aveva ucciso metaforicamente la sua identità rasandosi i capelli e indossando una maglietta con la scritta “Zero”. Così, come reso esplicito dallo straniante interludio nel bel mezzo di Glass & The Ghost Children, il protagonista principale sente la voce di un'entità suprema parlare attraverso di lui. In quel momento cambia il suo nome in Glass e quello della sua band in The Machines Of God, mentre i fan partecipano alla storia sotto le spoglie di Bambini Fantasma (The Ghost Children). Le premesse per scrivere un disco intrigante ci sono; ma tra la band che si sfalda e l'etichetta che si rifiuta di pubblicare e promuovere un album doppio in seguito al “fallimento” di Adore, il grande disegno viene per forza di cose ridimensionato.


In questo terremoto, vale la pena sottolineare un particolare interessante: anche se le contingenze scombinano i piani, l'idea di distacco che Corgan aveva originariamente in testa sopravvive eccome. Perché «C'è qualcosa di perfetto nel non curare ogni singolo dettaglio di un'opera, e permettere alla sincronicità di mostrare la via». Prendendo in prestito il concetto introdotto dallo psicanalista Carl Gustav Jung nel 1950, che descrive un legame tra eventi connessi che avvengono in contemporanea senza influenzarsi a vicenda, Billy trova il modo di giustificare Machina. «Quel disco è stato inciso poco prima del crollo disastroso dell'industria discografica. Pur rendendoci conto che stava accadendo qualcosa, non ci siamo tutelati consciamente; pensavamo di essere un semplice ingranaggio di un sistema che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con la rivoluzione digitale. Osservare il passato, a giochi fatti, è sempre facile; ma in quel momento storico ci sentivamo persi in una terra di mezzo, in balia di forze sconosciute che non riuscivamo a decifrare. E abbiamo deciso di rischiare il tutto per tutto». Una sensazione che Corgan aveva già avvertito nel 1998, rifiutandosi di replicare la formula di Mellon Collie per assecondare i propri stimoli, lasciando in secondo piano i discorsi legati al possibile gradimento del pubblico e delle major.


Sia nel caso di Adore che in quello di Machina, ha prevalso l'istinto; ma pur ammettendo che in entrambi i casi i numeri non gli hanno dato ragione, Billy non ha rimorsi. «Adore è il nostro album più significativo: rappresenta lo sganciamento dalla volontà di finire su MTV a tutti i costi, e il desiderio di gettarsi a capofitto nel vuoto, seguendo un'ispirazione personale. Machina è molto più confuso, ma suona incredibilmente moderno oggi. Per questo non voglio sprecare l'occasione di terminarlo fuori tempo massimo, di sviscerare tutto quello che mi passava per la testa in quel periodo e riproporlo in una versione più limpida. E soprattutto, completa». L'interminabile silenzio che avvolge il mistero della ripubblicazione di Machina è stato recentemente rotto dai risoluti “yes” di Billy Corgan in risposta alle domande dei fan durante un Q&A su Instagram. Ma ad oggi, non è stata ancora rivelata una data precisa. «Si tratta di un album avulso dalla nostra carriera, che sembra non essere mai uscito veramente. Per cucire attorno a Machina un contesto adeguato, e fare sì che venga finalmente considerato parte della discografia degli Smashing Pumpkins, serviranno tempo e pazienza». Domani si festeggia il ventesimo compleanno di Machina: che possa essere il giorno giusto per riscoprirlo a dovere? Chi lo sa. Quando c'è di mezzo l'istinto di Billy Corgan, ogni sorpresa è lecita.

2.18.2020

Viva gli artisti che fanno come gli pare: Damon Albarn


Dopo il beat preoptente di Born Slippy degli Underworld, scelto come sfondo per le promesse finali di un Mark Renton intenzionato a rigare dritto e scegliere la vita, sui titoli di coda di Trainspotting spunta un valzer bizzarro. Si intitola Closet Romantic, ed è a tutti gli effetti l'esordio discografico da solista di Damon Albarn. Un ragazzo ventisettenne che già all'epoca, mentre con i suoi Blur cercava di contendere agli Oasis lo scettro della miglior band britpop, mostrava chiari segnali di quanto il suo istinto esploratore non ne volesse sapere di rimanere rinchiuso nel recinto del rock.


Oggi, a quasi un quarto di secolo dall'uscita dello storico film di Danny Boyle, i progetti concepiti dalla mente di Albarn non si contano. In primis, i Gorillaz: sei album all'attivo e il recente annuncio della serie audiovisiva Song Machine, distribuita in episodi sparsi, come a riflettere la schizofrenica rapidità di un mondo in continua evoluzione. E i The Good, The Bad & The Queen, insieme a Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e al pioniere dell'afrobeat Tony Allen. Ma queste sono soltanto le due realtà più note, perché la discografia di Damon pullula di progetti estemporanei e creazioni occasionali. Basta pensare ai Rocket Juice & The Moon, ennesimo supergruppo costituito insieme al fedele Allen e a Flea dei Red Hot Chili Peppers, O ai continui flirt con collettivi africani che hanno prodotto almeno tre dischi (Mali Music nel 2002, Kinshasa One Two nel 2011 e Maison Des Jeunes nel 2013). Giusto per non farsi mancare nulla, Albarn ha lavorato su varie colonne sonore e ha perfino realizzato un paio di opere teatrali.


Cercare di mettere ordine in una simile quantità di produzioni è un'impresa quasi impossibile. Ma forse l'ordine non è un criterio da prendere in considerazione quando si parla di un artista vulcanico, che ha un'innata predisposizione a collaborare, a rischiare e a mischiare continuamente le carte. «La prerogativa della musica rock è di non avere radici. Il rock è sperimentale per natura, e quando vuole trovare a tutti i costi la sua identità smette di avere un significato», sentenzia Damon nel 2003. Una considerazione che nel caso specifico serve a giustificare lo spiazzante Think Thank, ma che in generale descrive il suo pensiero artistico; dopotutto, non si può certo dire che i primi sei album dei Blur avessero seguito una formula sonora e compositiva ben definita. Se un alieno ascoltasse singoli come Girls & Boys, Song 2 e Tender, provenienti da tre dischi consecutivi pubblicati nel giro di 5 anni, farebbe fatica a trovare un inequivocabile filo conduttore. «A volte è difficile spiegare alla gente che stai facendo un percorso, e forse non sei ancora arrivato; ma non mi sono mai fatto problemi a presentare anche quella parte del viaggio. Senza la piena consapevolezza dei propri errori non si va da nessuna parte».


Sebbene sperimentare e sfidare continuamente i propri limiti e quelli della musica sia un principio sano e necessario per evolversi, qualcuno potrebbe obiettare che a farne le spese, di fronte a svolte continue e ad un numero così elevato di progetti ed intuizioni, possa essere la qualità. Un'argomentazione che a Damon interessa poco. «Io scrivo con le emozioni, è l'unica via che conosco. Faccio il cantautore perché voglio esprimere gioie e paure attraverso la musica. Nelle note c'è la mia vita». Un'urgenza che nel 1998 trasforma un'innocua conversazione con il fumettista Jamie Hewlett in una visione concreta. «I Gorillaz sono nati in un contesto meravigliosamente spontaneo. Stavamo cazzeggiando sul divano, e all'improvviso ci siamo chiesti se non fosse il caso di creare una band immaginaria. A quel punto Jamie mi ha detto che sarebbe andato nel suo studio a disegnare dei personaggi. Io gli ho risposto che sarei andato nel mio a scrivere musica, e che poi avremmo messo insieme i nostri lavori».


Uno dei motivi per cui Damon si ritrova a condividere un appartamento con Hewlett è la fine della sua storia con Justine Frischmann degli Elastica. Una relazione lunga e significativa, che tra l'altro l'aveva anche introdotto all'eroina. «Di ritorno da un tour, me la sono trovata pronta in salotto. E ho pensato: “Perché no?”». Damon ha raccontato più volte il suo rapporto con la droga, e l'argomento è tornato di moda ai tempi di Everyday Robots, il suo primo (e finora unico) album solista del 2014. “La stagnola e un accendino / (…) / Cinque giorni attivi e due giorni di pausa”, canta esplicitamente in You And Me, quasi a dedicare un tributo al periodo dell'assuefazione. Sebbene la parola tributo possa sembrare fuori contesto, Damon si è espresso in maniera sincera a riguardo della sua dipendenza: pur mettendo tutti in guardia rispetto all'abitudine malsana, sostiene di avere beneficiato degli effetti dell'eroina. «Non posso negare che mi abbia in qualche modo illuminato creativamente. Io l'ho vissuto come un esperimento; ma purtroppo questo esperimento se diventa routine ti può rubare la vita. Sono stato fortunato, perché non ho subito effetti collaterali negativi e mi alzavo ogni mattina con l'entusiasmo di fare musica. Inoltre, non ho nemmeno avuto bisogno della riabilitazione, perché l'ho trovata in maniera naturale andando a visitare l'Africa. In quel momento sono riuscito a percepire la vera libertà a mente lucida».


Come il Renton di Danny Boyle, a un certo punto Damon ha messo la testa a posto. L'importanza dei viaggi nella vita (artistica e non) di Damon Albarn è centrale. Tra le sue mete preferite c'è la Jamaica, oltre all'onnipresente Africa. Ma anche una terra diametralmente opposta per clima e posizione: l'Islanda. «Da piccolo sognavo spesso delle spiagge nere. Poi un pomeriggio, guardando una trasmissione sull'Islanda, ho notato che lì esistevano davvero. Così ho preso un aereo da solo e sono andato a vederle con i miei occhi». L'episodio risale al 1996, anno in cui i Blur incidono il quinto disco in parte a Londra, e in parte proprio nell'isola dell'Europa Settentrionale. Un'isola alla quale rimane legato, come dimostra la colonna sonora composta per 101 Reykjavik nel 2000 e il recente annuncio di un nuovo progetto orchestrale ispirato ai paesaggi islandesi (The Nearer The Fountain, More Pure The Stream Flows).


Conviene rassegnarsi: stare dietro a tutto quello che combina quest'uomo è una vera sfida. Qualcuno potrebbe rimanere stupito dal fatto che in queste poche righe non abbia menzionato nomi enormi, come quelli di Bobby Womack (che si è rivolto a lui per produrre il disco del congedo definitivo), Massive Attack (con i quali ha collaborato a diverse riprese) e la parata di artisti che hanno contribuito alla causa dei Gorillaz (da Lou Reed ai De La Soul, da Neneh Cherry a Ike Turner, da George Benson a Snoop Dogg, da Jean-Michel Jarre a Mick Jones). Ci sarebbe un elenco a parte di illustri collaborazioni sfumate, nel quale svetterebbe il nome di David Bowie. Ma come già detto, fare ordine non è possibile quando si ha a che fare con un artista poliedrico e dinamico, che vive la musica giorno per giorno. «Quando apro la baracca, sono tutti i benvenuti. Le uniche condizioni che pongo sono un buon orecchio e l'apertura mentale. Sono cambiato rispetto a quando ero più giovane, ed ora vivo questo viaggio con più stabilità e maturità. Forse oggi mi muovo in maniera meno frenetica, ma non perderò mai la voglia di avventurarmi in territori che non conosco». A questo punto, i casi sono due: o sono io che non conosco il significato della parola “frenetico”, oppure qualcuno dovrebbe spiegarlo a Damon Albarn. «Ho imparato una cosa dalla vita: quando credi di essere arrivato, la meta cambia. L'unica cosa che posso fare è accettare questa regola e andare avanti».


11.22.2019

Coldplay - Everyday life (2019, Parlophone)

Mentre due o tre anni fa milioni di persone riempivano gli stadi di tutto il mondo per offrire il proprio supporto al coloratissimo tour di A Head Full Of Dreams, la frangia di contestatori dei Coldplay aumentava a dismisura. Chi non li aveva mai sopportati (e supportati) si è sfregato le mani assistendo al proliferare di aggettivi come “noiosi”, “bolliti”, “venduti”. Nel più classico dei meccanismi moderni, che prevede la fondazione fulminea di veri e propri partiti a favore o contro qualsivoglia oggetto di discussione, l’intolleranza nei confronti di Chris Martin e soci ha preso le sembianze di meme sarcastici e articoli derisori. L’ultimo nel quale mi sono imbattuto, recita più o meno così: “Oggi è un giorno triste per la musica: i Coldplay hanno deciso di non sciogliersi”.

L’accanimento nei confronti di alcune band, essenzialmente responsabili di avere raggiunto un enorme livello di notorietà, esiste da sempre; ma oggi risplende di una luce ben più abbagliante grazie all’amplificazione garantita dai social network. Il caso più eclatante è quello dei Nickelback: un gruppo capace di vendere più di 50 milioni di dischi e riempire stadi, ma allo stesso tempo di conseguire il poco invidiabile primato di band più odiata al mondo. Ma se una delle accuse principali mosse a Chad Kroeger e soci riguarda la loro immobilità artistica, i Coldplay si sono ritrovati in questa curiosa situazione in seguito a una scelta opposta: quella di evolversi, mettersi alla prova e – perché no – avvicinarsi consapevolmente al pop. Un iter familiare, che conduce alla classica affermazione che almeno una volta abbiamo pronunciato (o sentito pronunciare) nella vita: “Mi piacevano all’inizio, poi si sono commercializzati”. O “si sono persi”. Non tutti riescono a tollerare la trasformazione di qualcosa che sembrava esclusivo in un prodotto apprezzato universalmente. In parte mi sento anche io vittima di questo meccanismo perverso, che talvolta mi impedisce di godere insieme ai “nuovi arrivati” di un fenomeno che ho avuto la fortuna di intercettare (e amare) prima del successo planetario. Forse non è un caso che la mia passione per i Coldplay abbia cominciato a scricchiolare dal cambio di direzione di Viva La Vida. Pur consapevole di trovarmi di fronte a un disco inappuntabile, non potevo fare a meno di rimpiangere il suono più scarno di Parachutes, l’album del cuore. L’intimità di Ghost Stories ha risvegliato il mio fervore, mentre ho fatto molta fatica a digerire A Head Full Of Dreams. Ho espresso il mio disappunto sostenendo che fosse un disco privo di anima: prodotto ad arte, ma di una superficialità a tratti sconcertante. Ciononostante, non sono mai passato dalla parte degli hater. Un po’ perché mi sembrava irrispettoso. Un po’ perché non ho memoria di un artista in grado di evitare di fare qualche passo falso.

Chissà se Chris Martin, Guy Berryman, Jonny Buckland e Will Champion sono turbati o condizionati dal crescente fastidio nei loro confronti. Personalmente, ho trovato geniale l’operazione di annunciare l’uscita del nuovo disco attraverso delle lettere spedite via posta ai fan. Non che i Coldplay non ci avessero abituati a campagne pubblicitarie stravaganti, ma questa – in un’epoca in cui è sufficiente premere invio per raggiungere istantaneamente il mondo intero – le batte tutte. Ho pensato che potrebbe essere interpretata come una sorta di sberleffo ai danni dei nostalgici dell’esclusività: la freddissima comunicazione digitale moderna, destinata a tutti e a nessuno, che viene sostituita da un messaggio ad personam, molto più caldo almeno nella forma e nelle intenzioni. O forse si può leggere come preciso intento di volere escludere dalla comunicazione tutti quelli che di fronte alla notizia avrebbero fatto spallucce, o colto l’occasione per ironizzare. Infine, ho sperato che si trattasse di un indizio sulla musica contenuta in Everyday Life: come dire che non dobbiamo aspettarci un album patinato, dove in qualche canzone appare una Rihanna o una Beyoncé. Probabilmente le mie sono solo congetture, e la manovra aveva il solo scopo di creare attesa e fare parlare dell’album; ma, se parliamo di musica, le cose stanno proprio così. Perché in questa ora scarsa suddivisa concettualmente in due parti non c’è traccia di cori da stadio, arrangiamenti dance o hit radiofoniche. È un disco decisamente elegiaco, che in più di un episodio si avventura in esplorazioni per nulla scontate, traendo ispirazione da culture e tradizioni lontane dall’Occidente. È il caso di Church, che cita il cantante pakistano qawwal Amjad Farid Sabri, o di Bani Adam, che ospita un testo della poetessa iraniana Saadi Shirazi. O del singolo Arabesque, con i fiati impazziti orchestrati da Femi Kuti, la cui nazione d’origine (la Nigeria) viene apertamente citata nella soave Èkó. Gli archi di Sunrise, il gospel di BrokEn e i cori solenni di When I Need A Friend virano invece verso il sacro, mentre in Wonder Of The World / Power Of The People, Old Friends e Guns l’arrangiamento è ridotto a chitarra e voce (un minimalismo che ricorda gli esordi dei primi anni zero). Daddy e Cry Cry Cry sono due dolci ballad (la prima funerea, la seconda solare), mentre l’unico brano che si può lontanamente associare a una folla in delirio è l’altro singolo, Orphans.

Diciamolo: i Coldplay hanno tirato fuori un disco che non c’entra nulla con le impalcature smaccatamente pop di A Head Full Of Dreams. Hanno deciso che è tornato il momento di sperimentare. Di sfidare nuovamente i propri limiti. Ma se sperimentare significa tentare di mettere a fuoco qualcosa, è bene ricordare che molto spesso il frutto delle sperimentazioni musicali non centra l’obiettivo. Esistono una miriade di dischi notevoli che mostrano spunti interessanti, ma li presentano in maniera disarmonica, poco naturale e poco coesa. L’esatto contrario di Everyday Life, che raggiunge il risultato con classe e coerenza, fregandosene di tutto: della discografia, delle tendenze e forse perfino del pubblico (compresi i fedelissimi che negli anni hanno abbracciato con euforia tutte le divagazioni stilistiche della band). Probabilmente quest’opera toccante e ambiziosa non basterà a placare l’incomprensibile fastidio sbandierato in rete da chi ha deciso di schierasi a priori contro i Coldplay. Ma d’altra parte, come sosteneva Goethe, “parlare è un bisogno; ascoltare è un’arte”. Aggiungiamo a questa massima una postilla: ascoltare senza pregiudizi, nel mondo in cui viviamo, è un’utopia. Forse ogni tanto conviene rinunciare all’ironia imperante e provare a pensare con la propria testa. E lasciarsi guidare solo e unicamente dalla musica. Basta guardare con i propri occhi un gruppo globale (l’ultimo gruppo globale?) come i Coldplay che suonano sulle mura di Amman in Giordania, per recuperare quella magia impalpabile, e sentirla presente e vera. E a quel punto, nemmeno il sarcasmo può scalfire l’utopia.

8.5/10

Highlights: 
Tutto.



9.22.2019

Viva gli artisti che fanno come gli pare: Trent Reznor


In un episodio della quinta stagione di Black Mirror, Miley Cyrus aizza le ragazzine cantando un singolo del 1990 dei Nine Inch Nails rivisitato nell'arrangiamento e nel testo. Un mese fa, lo stesso singolo è stato scelto dalla Microsoft per il trailer del nuovo capitolo della saga di videogiochi Gears Of War. A quasi trent'anni dalla pubblicazione, Head Like A Hole è più attuale che mai. Un pezzo rabbioso, che mette in chiaro il carattere di un uomo poco incline a piegarsi alle regole. “Preferirei morire piuttosto che darti il controllo”, urla Trent Reznor in faccia al Dio Denaro nel ritornello. Parole che tornano utili quando la TVT, etichetta che ha pubblicato Pretty Hate Machine, gli chiede di sbrigarsi a confezionare un nuovo album, possibilmente “meno duro, più commerciale e adatto alle radio”.


“Che si fottano”, pensa Reznor. Lo pensa, ma deve mordersi la lingua: il contratto in essere, che aveva firmato con entusiasmo qualche tempo prima, prevede delle clausole di esclusività che gli impediscono di pubblicare nuova musica senza l'avallo della TVT. Tutto ciò che può fare è registrare in segreto i nuovi pezzi, nella speranza che i presenti qualcuno in grado di sbloccare la situazione di stallo e salvare i NIN da un epilogo prematuro. L'interessamento della Interscope è provvidenziale, ma anche se non esistono alternative la fiducia di Trent è ai minimi storici: oltre a non sopportare che la sua creatura venga trattata come merce di scambio, vuole essere sicuro di avere piena libertà artistica. L'accordo viene siglato solo quando la label di Jimmy Iovine e Ted Fields gli assicura totale autonomia affidandogli la conduzione di un'etichetta indipendente, gestita insieme all'allora fido manager John Malm Jr.. La Nothing Records debutta nel 1992 con l'e.p. Broken, e nel video di Gave Up svetta una scritta su un monitor che recita “Fuck you Steve”. Incidentalmente, il proprietario della TVT si chiama Steve Gottlieb.


(Il frame in questione è al minuto 0:35. Si, quello che fa finta di suonare la chitarra è un giovane e struccato Marilyn Manson. Si, quello che suona davvero l'altra chitarra è Richard Patrick dei Filter).

Il bisogno di indipendenza è una costante nella vita di Reznor, che all'età di 5 anni comincia a prendere lezioni di piano mostrando un certo talento e una spiccata propensione alla creatività. Non può fare a meno di interpretare a modo suo i rigorosi spartiti di musica classica, provocando i continui richiami dei suoi insegnanti. Si fottano pure loro: anche perché quando Trent scopre i sintetizzatori, si dimentica completamente del pianoforte. Dopo il diploma, il ragazzo affascinato da numeri e calcoli decide di specializzarsi in informatica, ma un anno di college è più che sufficiente per fargli capire che quella strada non fa per lui. Ha un carattere introverso e solitario, ma non è il tipico nerd. Fin dai tempi in cui suonava nella banda liceale, aveva trovato nelle note un antidoto alla sua timidezza; passare il resto dei suoi giorni a smanettare sui computer senza avere almeno provato ad inseguire il sogno di una carriera musicale è fuori discussione.


Per fare sul serio decide di lasciare Mercer, la cittadina rurale dove ha trascorso l'adolescenza, alla scoperta di un mondo che fino ad allora aveva solo intravisto in televisione. Si trasferisce a Cleveland, dove trova lavoro in uno studio di registrazione. “Raschiavo i peli pubici dei musicisti dal sedile del water, ma in cambio potevo entrare di notte e usare lo studio». Nonostante abbia militato in diverse band, Trent fa fatica a condividere con qualcuno il suo modo di pensare la musica. Per questo motivo, i Nine Inch Nails vengono concepiti come una one-man band. Reznor suona tutti gli strumenti (esclusa la batteria), e incide il suo primo disco nello studio dove è assunto come inserviente. Consapevole del potenziale pop della sua scrittura, ma allo stesso tempo allergico all'indottrinamento, Trent ripudia il consiglio dell'odiata ex-etichetta sfornando un lavoro meno accessibile di Pretty Hate Machine. Lo annuncia così: “Broken è un album brutto, realizzato durante un pessimo momento della mia vita. Sto iniziando a capire come funziona tutto questo, e non mi piace”. In quel momento sta anche ponendo le basi per il suo capolavoro.


The Downward Spiral è un'opera concettuale e grave, incentrata sull'autodistruzione. “Quando l'ho scritto, parlavo di un personaggio che fa a pezzi la sua vita alla ricerca di qualche risposta. Speravo fosse una sorta di caricatura, invece ho finito per descrivere la mia realtà». L'immagine di Mr. Self Destruct che urla “I wanna fuck you like an animal” tra sudore e fango a Woodstock '94 è ingannevole: dietro a quella sfacciata irruenza si nasconde un'anima tremendamente insicura, che non può certo beneficiare del successo di un disco per guarire. Bisogna attendere cinque anni per ascoltare il seguito di The Downward Spiral: The Fragile, pubblicato nel settembre del 1999, è un tentativo (fallito) di fare ordine nel caos. Qualche mese dopo, annebbiato da fiumi di alcol, Trent va in overdose da quella che pensava fosse cocaina, ma che in realtà era eroina. Il Fragility Tour, nomen omen, si rivela il punto più basso della sua esistenza. ”Ero dipendente, ma non lo riconoscevo. Credevo di avere il controllo della situazione».


Riecco il tema del controllo. Quello che Trent non era disposto a concedere a nessuno, a costo di morire. Lo stesso controllo che ora, a mente lucida dopo un periodo di riabilitazione, lo costringe ad affrontare la paura di fallire senza potere fare affidamento su sostanze obnubilanti. Un ostacolo che, con pazienza e abnegazione, Reznor supera brillantemente. La rinascita è scandita da colonne sonore di spessore (composte insieme ad Atticus Ross, che nel 2016 diventa un membro ufficiale dei NIN), collaborazioni autorevoli (come quella di Dave Grohl in With Teeth), progetti ispirati (gli How To Destroy Angels, insieme alla moglie Mariqueen) e invenzioni di sistemi di promozione e distribuzione della musica all'avanguardia (Year Zero e The Slip). Una serie di vivide testimonianze della mente di un artista visionario, capace di guadagnarsi la stima di gente come David Bowie e David Lynch partendo dai bagni di uno studio di registrazione di Cleveland. E di diventare un punto di riferimento senza mai scendere a compromessi.


8.22.2019

20 anni di Microchip emozionale dei Subsonica


Ogni tanto mi domando che fine abbia fatto Aurora, la ragazza che vent'anni fa sognava innesti artificiali degni di un romanzo cyberpunk. Nutrendosi di gelato e dormendo rigorosamente di giorno per sfruttare l'aria complice che le donava il buio, Aurora voleva essere in tutto e per tutto un automa. Bramava carne sintetica, labbra cromate e occhi bionici, magari provvisti di un sistema in grado di registrare i ricordi come succede in un episodio di Black Mirror. Ma il suo desiderio più proibito era un congegno denominato Microchip Emozionale; un dispositivo installato sotto pelle in grado di segnalare quei sentimenti nascosti nella sua anima che proprio non riusciva ad esprimere.


Aurora era un outsider. Una ragazza allergica ai vuoti rumori della realtà, che combatteva alzando il volume della sua musica preferita a stecca. Affrontare il mondo in maniera convenzionale era fuori discussione: meglio una sana e consapevole solitudine, piuttosto. Per raccontare le gesta della protagonista di uno dei brani cardine del secondo disco, i Subsonica avevano fatto uno strappo alla regola dei testi scritti in prima persona, optando per una narrazione in terza persona che solitamente esclude o limita il coinvolgimento dell'autore. In questo caso la regola non vale: sotto diversi aspetti, la figura di Aurora è una proiezione quantomai fedele del pensiero della band.

Pubblicato il 26 agosto del 1999 dalla Mescal, etichetta indipendente nata sei anni prima con il preciso scopo di tutelare progetti artisticamente meritevoli ma ignorati dal mercato italiano (gli outsider, appunto), Microchip Emozionale segna un punto di svolta nella carriera dei Subsonica. Chi li conosceva già dal primo lavoro era pronto a un’evoluzione, ma in pochi avrebbero scommesso su un disco in grado di proiettare i torinesi in territori mainstream senza sacrificare un briciolo di autenticità. Musicalmente e lessicalmente inconsueto rispetto alle tipiche produzioni made in Italy, l'album riesce comunque a ritagliarsi uno spazio significativo in classifiche e playlist, sollecitando una rivoluzione di pensiero che va ben oltre la musica.


Il segreto di Microchip Emozionale va ricercato nella sua marcata identità su più livelli. Compositiva, innanzitutto. Perché ad eccezione di Lasciati e Strade (pezzi in cui Samuel mette lo zampino) e Discolabirinto (scritto a quattro mani da Morgan e Boosta), il disco è opera di Max Casacci e Davide Dileo. Qundo i due uniscono le forze sprigionano un potenziale pop devastante, confermato dal primo singolo Colpo Di Pistola e da Tutti I Miei Sbagli, brano portato al Festival di Sanremo e successivamente incluso nella ristampa del 2000. Ma anche lavorando separatamente la coppia mostra un affiatamento esemplare, ed è grazie allo loro supervisione armonica e melodica che il disco sfoggia una coerenza impeccabile.


Una compattezza che si riflette anche in fase di arrangiamento attraverso l'esplorazione di soluzioni sonore che non appartengono al DNA della musica italiana. Le antenne si drizzano fin dallo skit introduttivo, che stravolge un campione della voce di Samuel creando una sorta di beatbox, per poi lasciare spazio alla linea di basso sintetica di Sonde. Quando Colpo Di Pistola raddoppia il ritmo sul ritornello o quando in Liberi Tutti spuntano arpeggiatori acidi è impossibile non pensare alla scena Uk capitanata da gente come Fatboy Slim e Chemical Brothers, così come l'incedere cupo di Lasciati richiama immediatamente le atmosfere rarefatte del Trip-Hop. Non si tratta di un caso: i Subsonica trovano ispirazione nella freschezza delle nuove correnti elettroniche d'oltremanica, e vogliono filtrarle attraverso un'ottica da rock band. Ben vengano dunque loop, sintetizzatori e manipolazioni sonore; ma sempre mantenendo vivo lo spirito del gruppo, e quindi contando su esecuzioni principalmente suonate. Un precetto che Ninja (batteria) e Pierfunk (basso), assi portanti del comparto ritmico, metabolizzano con estrema naturalezza.


L'inappuntabile coesione di Microchip Emozionale non si esaurisce qui, ma si rispecchia anche nella cura dei testi, straordinariamente coraggiosi sia nella forma che nei contenuti. Se l’elenco di farmaci antidepressivi snocciolato nelle strofe di Depre rappresenta il punto più alto della sperimentazione, il linguaggio degli altri brani, sebbene più comprensibile, non rinuncia a veri e propri azzardi. Quante volte è capitato di sentire nelle canzoni italiane termini come “training autogeno”, “neurotrasmettitori” o “shock adrenalinico”? Come dimostrato dalla storia, esprimersi in modo accessibile è una delle chiavi per il successo, a maggior ragione se chi ascolta conosce la tua lingua. Fare affidamento sulle classiche rime cuore/amore è una strategia del tutto legittima per raggiungere il pubblico, ma a quanto pare scendere a compromessi in nome di un'ordinaria (quanto scontata) musicalità non interessa ai Subsonica. E la buona notizia è che il loro messaggio viene recepito nonostante l'utilizzo di un vocabolario più ampio (ed alto).


Come chiariscono nella Bowiana Il Mio D.J., i Subsonica sono quello che suonano (“I am a d.j. / I am what I play”): in quei solchi scorre la loro anima, e non hanno nessuna intenzione di venderla al diavolo. Il loro obiettivo, semmai, è dare alla gente quello che ancora non sa di volere, prerogativa dei bravi selezionatori musicali. L'unico modo per connettersi all'assenza di gravità dei torinesi è volerlo fortemente, perché nei loro corpi, proprio come in quello di Aurora, non c'è traccia di impianti artificiali, e quindi sono sprovvisti anche di sensori diplomatici.


Pur non sapendone nulla di cibernetica, mi sembra di capire che il Microchip Emozionale tanto desiderato da Aurora rimane una chimera. Bisognerà aspettare ancora un bel po' per un'invenzione simile. Ma sono sicuro la ragazza si sarà sentita meno sola ascoltando il secondo disco dei Subsonica a cavallo tra i due millenni. Un album che tra avveniristiche discoteche-labirinto e transiti satellitari sviscerava oscurità assolutamente umane, diventandone l'antidoto. Un'opera immune allo scorrere del tempo, pronta anche oggi a confortare tutte le Aurore in cerca di risposte sparse per il pianeta.

7.15.2019

Viva gli artisti che fanno come gli pare: Thom Yorke


Quando Paul McCartney chiede assistenza a Nigel Godrich per il suo tredicesimo disco, il produttore supera un comprensibile attacco di panico, ma alla fine accetta. D'altronde è difficile immaginare che qualcuno possa resistere alla tentazione di collaborare con un pezzo di storia della musica. Però è successo: invitato a suonare il pianoforte in un brano di Memory Almost Full, Thom Yorke declina cordialmente la proposta di McCartney. «La canzone è bellissima, ma per suonare quella parte di piano bisogna sapere gestire le mani separatamente. Io non sono capace. Mi limito a strimpellare». Non è una scusa, e non si tratta di mera umiltà. È un'osservazione che scaturisce da un'analisi realista e genuina, che non contempla approfondimenti su eventuali tornaconti personali. «Thom non era dotato come il suo amico Johnny Greenwood» ha rivelato il suo insegnante di musica del liceo «Però era un grande pensatore e adorava sperimentare».


Sono parole che descrivono bene l'attitudine di un musicista atipico, che non si è mai preso la briga di imparare a leggere spartiti, convinto che comporre attraverso un'impostazione classica rappresenti un ostacolo alla libertà di espressione. Una libertà che Thom vuole tenersi stretta, e dalla quale nascono veri e propri colpi di genio. Un esempio? Pyramid Song. Gli accordi di piano cadono in posizioni scomode, inducendo l'ascoltatore ad avvertire una certa instabilità, quasi come se il brano fosse pericolante. In realtà il singolo tratto da Amnesiac è in 4/4, una metrica assolutamente ordinaria: è il pensiero laterale di Yorke a donare profondità alla canzone, che suona ritmicamente ostica pur accomodandosi in uno schema metrico comune. Chissà se sarebbe mai arrivato a un risultato simile facendo affidamento sulle teorie, munito di carta e penna.


La filosofia di Thom prevede un buon grado di naturale improvvisazione. Come quando durante il tour di Kid A gli viene spontaneo compensare la mancanza della chitarra a tracolla tenendo occupate le braccia in un altro modo, finendo così per inaugurare i suoi iconici balletti nervosi, figli di un'indole schiettamente istintiva. Movimenti ricalcati dal recente cortometraggio firmato Paul Thomas Anderson in occasione dell'uscita del suo terzo disco solista, Anima. Un album in linea con le infatuazioni elettroniche di Yorke, che subentrano con prepotenza durante il blocco creativo successivo a Ok Computer (1997). Nel tentativo di trovare nuovi stimoli, Thom decide di andare in pellegrinaggio in Cornovaglia, camminando tra le scogliere e passando il tempo a scrivere e disegnare. La colonna sonora di questa parentesi solitaria della sua vita è composta quasi interamente dai lavori di Aphex Twin e Autechre, paladini della IDM (Intelligent Dance Music). Una musica spigolosa e robotica, dove non c'è spazio per la voce umana, ma nella quale Thom individua lo stesso potenziale emotivo delle canzoni suonate alla chitarra. Nella testa di Yorke il rock è giunto al capolinea: la brusca svolta stilistica di Kid A parte da qui.


«Da bambino credevo che la fama avrebbe colmato un vuoto, ma in realtà è successo il contrario: ero al centro dell'attenzione, e volevo essere da tutt'altra parte. La musica per me è sempre stata la via per progredire. Invece ero lì, immobile, a testimoniare la vendita del mio lavoro al miglior offerente». Ok Computer consacra i Radiohead, ma risucchia la linfa vitale di Thom. «Chiudi gli occhi, e convinciti di non essere qui. Ripeti alla nausea che tutto questo non sta succedendo» è il suggerimento dell'amico Michael Stipe, mantra che si riflette nel testo della catartica How To Disappear Completely. Più tardi, Thom riuscirà ad affrontare il suo smarrimento in maniera più lucida: “Non c'è alcuna scintilla nel buio” mormora in Analyse “Sei giù di morale, perché stai solo ricoprendo un ruolo”.


Quando i Radiohead si prendono una pausa dopo Hail To The Thief (2003), Thom ne approfitta per assecondare il bisogno impellente di dare alla luce il suo primo album solista. The Eraser (2006) è un disco politico e inquieto, lontano anni luce dal rock. Concepito come la colonna sonora dell'isolamento, sia esso reale o metaforico, l'album è composto da nove schegge sbilenche costruite su un laptop a partire da registrazioni pre-esistenti. Insieme al fido Godrich, Thom taglia e cuce, rimaneggia e stravolge. Ma a differenza delle composizioni elettroniche che le hanno ispirate, le tracce ospitano una voce priva di effetti, che dona alle composizioni un'umanità sconvolgente. Sembra quasi che Thom voglia ribadire che esiste un modo per andare d'accordo con la tecnologia, principale motore dell'opprimente velocità alla quale il mondo si sta muovendo.


Una velocità che attraverso la rete destabilizza anche il music business, che diventa uno dei bersagli preferiti di Thom. Il cervellotico Tomorrow's Modern Boxes (2014) prosegue il discorso iniziato dai Radiohead con In Rainbows (2007), presa di posizione chiara contro le major, accusate di non gestire a dovere il processo di distribuzione della musica in una nuova era. Dopo l'eclatante pay-wat-you-want, ecco l'esperimento pay-gate. Un nuovo tentativo di bypassare le etichette, definite senza mezzi termini i “custodi auto-eletti”. Scrosciano applausi e piovono critiche, perché per offrire il proprio contributo a una possibile rivoluzione è necessario rischiare.


Ma quello che fa riflettere è che Thom non è mai stato costretto a rimettersi in gioco. Dopo Ok Computer avrebbe potuto replicare la formula ad libitum insieme ai suoi Radiohead, e invece ha azzerato tutto. In Rainbows avrebbe venduto bene anche se distribuito in maniera più tradizionale, e invece è stato messo a disposizione del pubblico senza intermediari e senza prezzo. Accettare l'invito di Paul McCartney avrebbe aggiunto una collaborazione di valore al suo curriculum, ma ha preferito tirarsi indietro per rispettare i suoi ideali. Thom ha sempre messo il suo pensiero davanti a ogni possibile vantaggio. Ai tempi del liceo, un suo amico l'aveva soprannominato “Salamandra”, un appellativo che a lui non era mai andato giù. Nella simbologia del medioevo, la salamandra identificava le virtù che consentono alla persona retta di passare indenne attraverso tribolazioni e tentazioni. Il suo compagno del liceo ci aveva visto lungo.